Attraverso questo processo all’interno della specie umana nascono gruppi che ci [=si?] contrappongono a vicenda, che parlano lingue diverse e reciprocamente incomprensibili, si differenziano per abiti tradizionali, pittura, gestualità, usi e costumi. Tale contrapposizione può essere superata attraverso la comunicazione — fatto, questo, che richiede tecniche culturali di traduzione — o può crescere in ostilità più o meno violenta. Il mestiere di interprete è uno dei più antichi fra quelli documentati nella storia della divisione del lavoro, e il termine ‹dragoman›, «interprete», conserva ancora il ricordo dell’accadico ‹ragamu›, «chiamare, parlare ad alta voce», e dell’aramaico ‹targum›, «traduzione», da esso derivato [3]. Una delle più antiche e importanti tecniche culturali di traduzione, intesa come creazione di trasparenza e comprensione reciproca, è proprio la religione. Ben lungi dal considerare la religione dell’altro la quintessenza della sua estraneità, come fa Huntington, si vide in essa il punto di partenza più importante per giungere a uno scambio comunicativo con l’altro su una base contrattualmente sicura di comprensione reciproca, anzi, a uno scambio ‹tout court›.
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NOTE
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[3]. W. von Soden, ‹Dolmetscher und Dolmetschen im Alten Orient›, in ‹Aus Sprache, Geschichte und Religion Babyloniens. Gesammelte Aufsätze›, a cura di L. Cagni e H.-P. Müller, Napoli, Giannini, 1989, pp. 343-351.
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[] J. A s s m a n n, ‹N o n a v r a i a l t r o d i o› (2 0 0 6), i l M u l i n o, 2 0 0 7.
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