Ho esposto questo sistema in numerosi saggi e articoli e non è mia intenzione tornare a proporlo anche qui [4]. Nel contesto attuale, infatti, l’unica tesi a risultare decisiva è quella che ha suscitato tanta indignazione nei miei confronti da parte dei teologi: la tesi secondo cui il monoteismo ha posto fine a tale traducibilità reciproca. Alla luce di questa nuovissima forma di religione è proprio la religione dell’altro che diventa l’elemento estraneo e nemico, per l’esattezza nemico di Dio. Nella religione dell’altro si coglie la quintessenza dell’estraneità. A questo proposito è sufficiente ricordare i passi biblici sui sacrifici infantili, sull’idolatria, la magia, la divinazione e altre «atrocità». La religione diventa quindi il generatore più importante di estraneità e odio, e la distinzione tra ebrei e gentili, pagani e cristiani, musulmani e infedeli, cioè la «casa dell’Islam» e la «casa della guerra», dà vita a una forma completamente nuova di differenziazione culturale. È ovvio e assodato che la diffusione delle religioni universali procede di pari passo con la demolizione di altre differenze, per esempio nazionali. Ed è altrettanto chiaro che senza una religione comune non si sarebbe potuta creare tra malesi, pakistani, pashtun, sauditi, libici, sudanesi e marocchini quella solidarietà politica per un’unica e medesima causa cui di fatto assistiamo. [⇒]
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NOTE
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[4]. J. Assmann, ‹Translating Gods. Religion as a Factor of Cultural (In)translatability›, in ‹Translatability of Cultures. Figurations of the Space Between›, a cura di S. Budick e W. Iser, Stanford (Calif.), Stanford University Press, 1996, pp. 25-36; Id., ‹Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria›, Milano, Adelphi, 2000.
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[] J. A s s m a n n, ‹N o n a v r a i a l t r o d i o› (2 0 0 6), i l M u l i n o, 2 0 0 7.
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