E all’alba della scienza moderna c’è l’impresa di Galileo Galilei che scorge con il suo cannocchiale (1610) montagne e valli sulla Luna, e spiega che le macchie lunari — «i segni bui» che la superstizione popolare vede come i tratti di Caino esiliato sul nostro satellite (scrive Dante nel Paradiso II 49-51) — sono in realtà ombre dovute alla conformazione della Luna che non è «una superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e proprio come la faccia della Terra, è piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti».
Con il certificare che la Luna è solo un’altra Terra, le ombre galileiane mandano in pezzi la cosmologia aristotelica. Questa era già l’intuizione di Giordano Bruno che aveva ribadito (e il cannocchiale non era stato ancora inventato) che «la Luna è cielo a noi come noi alla Luna» e aveva inteso trasformare conseguentemente politica e teologia.
Del resto, nel suo testo latino del 1582, che guarda caso si intitola ‹Le ombre delle idee›, aveva definito così la natura mista dell’ombra: essa «prepara l’occhio alla luce» e attraverso di essa «la divinità attenua e manifesta all’occhio offuscato dell’anima quelle immagini che sono ambasciatrici delle cose».
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K E Y W O R D S
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