E in fin dei conti non conosciamo situazioni del genere anche nel comportamento degli uomini? L’eroe omerico, che vuole arrendersi e invoca pietà, getta via elmo e scudo, cade in ginocchio e china la testa, in un atteggiamento che evidentemente faciliterebbe al nemico il compito di ucciderlo, mentre in realtà glielo rende più difficile. E ancor oggi in molti gesti di cortesia c’è un residuo simbolico di quegli atteggiamenti di sottomissione: l’inchino, la scappellata, il «presentatarm» nelle cerimonie militari. Sembra però che non sempre gli eroi omerici riuscissero nel loro intento quando inscenavano quell’atteggiamento di sottomissione per invocare pietà: non sempre l’avversario se ne lasciava influenzare, o per lo meno, sotto questo aspetto, egli aveva un cuore assai meno tenero dei lupi. In parecchi casi il poeta ci descrive l’uccisione spietata del vinto che invoca clemenza, o ci racconta come, nonostante la compassione, l’uccisore infliggesse la morte al nemico. Anche nelle antiche saghe germaniche vi sono parecchi esempi in cui il gesto di sottomissione non ottiene alcun risultato, e solo per i cavalieri medioevali è diventato un imperativo del codice guerresco l’obbligo di risparmiare colui che si arrende. Quindi soltanto il cavaliere cristiano, in virtù di una tradizione e di una morale religiosa, diviene così cavalleresco come lo è, visto obiettivamente, il lupo, in virtù dei suoi impulsi più profondi e delle sue inibizioni naturali. Che sorprendente paradosso!
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K E Y W O R D S
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[] K. L o r e n z, ‹L’ a n e l l o d i R e S a l o m o n e› (1 9 4 9), A d e l p h i, 2 0 0 6²².
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