È raro che io rida di un animale, e quando ciò accade mi accorgo poi, ripensandoci meglio, che in realtà ridevo di me, dell’uomo, di cui l’animale mi aveva presentato una caricatura più o meno spietata. Ci viene da ridere di fronte alla gabbia delle scimmie, non alla vista di un bruco o di una lumaca, e se un vanitoso papero selvatico che fa la corte alla sua bella ci sembra così incredibilmente comico, è proprio perché il suo comportamento ci ricorda quello dei nostri giovanotti.
Il buon conoscitore degli animali raramente ride dei loro aspetti bizzarri, e spesso io mi arrabbio quando al giardino zoologico o all’acquario i visitatori ridono di un animale che, nell’estremo adattamento a particolari condizioni di vita, ha sviluppato una forma corporea un po’ aberrante. Il «pubblico» ride, cioè, di cose che per me sono sacrosante: il mistero della trasformazione della specie, della creazione e del creatore. La forma grottesca di un camaleonte, di un pesce palla o di un formichiere suscita in me una devota meraviglia, mai un senso di ilarità.
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K E Y W O R D S
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[] K. L o r e n z, ‹L’ a n e l l o d i R e S a l o m o n e› (1 9 4 9), A d e l p h i, 2 0 0 6²².
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