[⇐] È in questo clima di nuova consapevolezza che, nel 1944, uscì ‹Heidegger e il suo tempo› di Rüdiger Safranski, il cui titolo in italiano è anodino, mentre nell’originale tedesco (così come in molte traduzioni in altre lingue) è ben più eloquente, ossia ‹Un maestro tedesco›, con riferimento ai versi di ‹Fuga di morte› di Paul Celan: «la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro ti colpisce con palla di piombo». ‹Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia›, il monumentale libro di Emmanuel Faye (la cui edizione ampliata risale al 2007, e che viene ora proposta in italiano dall’Asino d’oro con l’eccellente cura e introduzione di Livia Profeti e una ricca prefazione dell’autore per l’edizione italiana, pp. 544 € 30) compie un ulteriore e decisivo passo in avanti per l’uscita dal mito, mostrandoci come Heidegger non solo fosse personalmente e convintamente nazista, ma come tutta la sua filosofia sia radicalmente inseparabile dal nazismo, e abbia realizzato — come una sorta di Lili Marlene speculativa — la singolare operazione di traghettare nella sinistra postmoderna parole d’ordine, termini e concetti che appartenevano alla visione del mondo nazista. Come si spiega che il massimo successo di quella che un contemporaneo, Lévinas, definiva «la filosofia dell’hitlerismo» abbia avuto luogo a sinistra e non a destra, e dopo la guerra? L’arcano si svela abbastanza facilmente. Da una parte, parlare nel dopoguerra, a destra e in Germania, di autori nazisti come Heidegger, Jünger, Schmitt (e di un loro riferimento comune, Nietzsche) sembrava implausibile, ne momento in cui la cultura tedesca era, comprensibilmente, interessata a voltare pagina. [⇒]
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K E Y W O R D S
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