L’etnologo pone così come centrale non una dimensione del sacro aprioristica, connotata come negazione della morte, bensì l’esigenza umana di elaborazione del lutto, evidenziando le diverse declinazioni culturali che questa assume. Nella prospettiva demartiniana la dimensione essenziale e universale può essere allora indicata proprio nello sforzo di superamento del momento critico della morte attraverso l’attribuzione al defunto di una “seconda morte”, culturalmente connotata, che permetta al singolo di portare a compimento un processo di separazione.
Nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte, sia destinando ad una nuova riplasmazione formale la somma di affetti, di comportamenti, di gratitudini, di speranze e di certezze che l’estinto mobilitò in noi finché fu in vita, sia facendo nostra e continuando ad accrescere nell’opera nostra la tradizione di valori che l’estinto rappresenta. Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, ‹è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre un attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita› [24].
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NOTE
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[24]. E. de Martino, ‹Morte e pianto rituale›, cit., pp. 8-9 (corsivo mio).
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