Credo sia già evidente la distanza che intercorre tra la proposta demartiniana e quella eliadiana. La morte, come dato biologico inevitabile e ateisticamente riconosciuto, che esige però una risposta vitale umana, è al centro del pensiero dell’etnologo. Il sacro eliadiano opera invece una vera e propria rimozione del concetto.
Questa diversa prospettiva porta ovviamente i due autori all’edificazione di un’antropologia, e dunque a una concettualizzazione della storia, radicalmente opposta. Parlare di morte ha, seguendo la ricerca di de Martino, un senso più ampio: ha il valore di considerare a fondamento dell’esperienza umana lo sforzo di oltrepassamento di ogni momento critico, che impone all’uomo una separazione da quanto si è stato e una necessaria riproposizione in termini nuovi del proprio ‹esserci›. La presenza nel mondo come essere umano dotato di senso non è dunque un dato acquisito una volta per tutte, ma una sfida trasformativa continua.
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