Di fronte ai canti popolari sulle nascite e infanzie miserande, de Martino avverte che sarebbe sbagliato ricollegarle al ‹Geworfenheit› heideggeriano [sic!], alla deiezione. Il problema non è quello esistenzialista, «di cercare dei complementi teologici al non starci nel mondo, ma – semplicemente – di trasformare il mondo per starci tutti da uomini» [28]. L’esserci nel mondo dunque non è puro negativo, come voleva Heidegger, ma non è neppure datità indiscutibile [29]: è una lotta continua di affermazione di sé. Nel fare questa scoperta, de Martino pone due principi alla base dell’umano: crisi della presenza come momento negativo, di labilità, del quale analizza la risoluzione che storicamente se ne è data in chiave mitico-rituale; ed ethos del trascendimento, come proposta di una prassi trasformativa e valorizzante connaturata all’uomo nel suo agire nel mondo e nei rapporti. Risulta quindi chiaro quando scrive che il «fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere, cioè quello slancio valorizzatore intersoggettivo della vita» [30].
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NOTE
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[25]. E. de Martino, “Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto”, ‹Studi e materiali di storia delle religioni›, 24-25 (1953-1954), pp. 18-19.
[…]
[27]. Id., “Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni”, ‹Società›, n. 3 (1953), pp. 17-18.
[28]. Ivi, p. 14.
[29]. Id. (1977), ‹La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali›, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002, pp. 639-640.
[30]. Id., ‹La fine del mondo›, cit., p. 668.
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