Quando confrontiamo gli individui di una stessa varietà o sottovarietà delle piante o degli animali da più tempo coltivate o allevate dall’uomo, una delle prime cose che colpisce la nostra attenzione è che essi generalmente differiscono l’uno dall’altro più di quanto non differiscano gli individui della stessa specie e varietà allo stato di natura. E, se riflettiamo sull’immensa diversità di piante coltivate e di animali domestici che hanno variato nel corso del tempo sotto i più differenti climi e trattamenti, dobbiamo concludere che questa grande variabilità è dovuta al fatto che i nostri prodotti domestici sono cresciuti in condizioni di vita non così uniformi e un po’ diverse da quelle a cui le specie affini sono state esposte in natura. Dev’esserci anche qualcosa di vero nella spiegazione data da Andrew Knight, cioè che questa variabilità possa essere parzialmente legata all’eccesso di cibo. Appare evidente che gli organismi devono essere sottoposti a nuove condizioni di vita per diverse generazioni perché possa prodursi una qualsiasi variazione di notevole entità; e che un certo tipo di organizzazione, quando abbia incominciato a variare, continua a farlo nel corso di molte generazioni. Non si ricordano casi di organismi variabili che abbiano cessato di variare allo stato domestico. Le piante che sono state coltivate dai tempi più antichi, come il frumento, producono ancora nuove varietà: i nostri animali addomesticati dai tempi più antichi sono ancora capaci di subire rapidi miglioramenti o modificazioni.
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K E Y W O R D S
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[] C h. D a r w i n, ‹L’ o r i g i n e d e l l e s p e c i e›, B o l l a t i B o r i n g h i e r i, 2 0 1 5.
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