Ma è solo l’inizio delle sorprese. Comparando fra loro porzioni del genoma di specie antiche, e verificando la rispondenza fra i risultati ottenuti e le tradizionali prove archeologiche, si possono dare oggi risposte più precise sull’epoca in cui le popolazioni sono vissute, sulla parentela con specie cugine, sul loro areale di distribuzione e persino sui loro spostamenti geografici. Molto dipende tuttavia dallo stato di conservazione dei fossili dai quali estrarre il Dna, che si deteriora con il passare del tempo e per effetto della temperatura. Se i reperti risalgono ad alcune decine di migliaia di anni fa e se il suolo che li ospita non presenta troppa umidità o acidità né tassi elevati di decomposizione, l’indagine “archeo-genetica” può dare risultati affidabili, e molto spesso sorprendenti. È questo il caso di numerosi fossili europei e asiatici trovati a latitudini alte, appartenenti però finora soltanto ai primi ‹Homo sapiens› e a ‹Homo neanderthalensis›, che proprio grazie alla genetica sappiamo essere state due forme di esseri umani distinte l’una dall’altra e non invece la prima una discendente diretta della seconda.
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K E Y W O R D S
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[] T. P i e v a n i, ‹H o m o s a p i e n s e a l t r e c a t a s t o f i›, M e l t e m i, 2 0 1 8³ (r i v.).
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