Fin qui, abbiamo la descrizione analitica del ritrovamento fossile (datazione, morfologia, etc.) associata ad alcuni indizi su possibili generalizzazioni: i primi ‹Homo› erano morfologicamente molto variabili, il che di per sé non sorprende visto che vivevano in un contesto ecologico instabile ed eterogeneo, dal Sudafrica al Mar Nero (erano insomma forme di transizione fra le ultime australopitecine con ancora caratteri arboricoli residui e un cervello stabilmente di 400-450 cc e le forme del genere ‹Homo› più slanciate, completamente bipedi e con un cervello in espansione).
Come d’uopo iniziavano poi, nella parte finale dell’articolo su “Science”, le interpretazioni degli scopritori a proposito delle implicazioni di questa scoperta sul modello generale dell’evoluzione umana corroborato fino a questo momento. Gli autori dell’articolo ipotizzavano, in particolare, che la variabilità così spiccata, in un sito geograficamente localizzato, fosse tale da includere nel suo spettro anche tutte le varianti africane coeve fin qui attribuite a ‹Homo habilis›, ‹Homo rudolfensis› e ‹Homo ergaster›, che quindi vengono raggruppate in una singola linea evolutiva di “primi Homo” [sic!], con una continuità geografica attraverso continenti diversi. In pratica, si suggeriva la presenza di una sola grande specie all’inizio del nostro genere, e non tre o quattro come pensavano (e continuano a pensare) molti altri paleoantropologi.
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K E Y W O R D S
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[] T. P i e v a n i, ‹H o m o s a p i e n s e a l t r e c a t a s t o f i›, M e l t e m i, 2 0 1 8³ (r i v.).
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