torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d11)

  •  R e a l e  (2 0 0 7)  •  … n a s c e  c o n  l’ u o m o”  •

•  Perché ha deciso di intraprendere questo viaggio nel male?

Credo che una riflessione sul male, soprattutto nell’uomo, abbia un motivo di interesse e urgenza del tutto nuovi, che si vanno ad affiancare a quelli esistenti già da sempre: non passeranno molti anni, infatti, che ci troveremo ad affrontare l’interrogativo veramente epocale sul se e come modificare il nostro patrimonio genetico. Sarà necessario aver riflettuto a fondo su cosa è bene e cosa è male nelle nostre disposizioni e nella nostra indole, in modo da riuscire, eventualmente, a modificarci per il meglio e non per il peggio. Nel momento in cui sarà effettivamente possibile cambiare alcuni aspetti della nostra natura biologica profonda, occorrerà rivedere molti concetti ai quali abbiamo fino adesso prestato un’attenzione superficiale, perché ritenevamo di non avere alcun potere su di essi. Cercare di stabilire i confini del bene e del male può rappresentare l’inizio di una riflessione su dove vogliamo andare, come specie e come individui.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d10)

  •  R e a l e  (2 0 0 7)  •  … n a s c e  c o n  l’ u o m o”  •

•  La terza e ultima categoria è quella del male interiore: da dove nasce?

Nessun animale si chiede perché vive: vive e basta. E fa di tutto, più o meno consapevolmente, per mantenersi vivo e dare alla propria prole l’occasione di vivere. A complicare le cose nell’uomo interviene una corteccia cerebrale particolarmente sviluppata che ci consente di possedere consapevolezza e progettualità, e dunque di mettere in relazione eventi diversi, talora lontani nello spazio e nel tempo. E mettere in relazione equivale a chiedersi perché e a che fine. Dato che non c’è sempre un perché o un fine, la nostra mente riscontra una disparità e la nostra anima prova una delusione e un profondo disagio. La maggior parte di noi va avanti comunque, godendosi anche i vantaggi e le soddisfazioni di tutto ciò che la nostra mente ci permette di conseguire. Sullo sfondo resta però sempre l’ombra del mondo che non è quello che credevamo. Non ci sarebbe forse alcun problema se sapessimo autoingannarci fino in fondo. Ma non è così. La nostra inesorabile corteccia cerebrale non ce lo permette: fruga, mesta, registra, compara, interroga, ipotizza, verifica e poi ci presenta il conto. In definitiva, il clima interno dell’uomo sembra affine al male perché in perpetua attesa di qualcosa e sbilanciato verso il futuro. L’uomo è progetto, ma il progetto è una mancanza e non certo una pienezza. Da qui nasce il disagio interiore che può sfociare, nei casi più gravi, nella depressione, cioè in una vera e propria patologia.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (…d9a)

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[⇐]  Ma in genere non basta sapere che cosa si dovrebbe o non si dovrebbe fare: si può benissimo sapere che cosa è giusto e non farlo e che cosa è sbagliato e farlo ugualmente. Perché l’uomo non è solo razionalità e conoscenza. Lo è anzi solo in minima parte. La mia impressione è che, una volta che l’individuo si trovi in una certa situazione psicofisica avviata al compimento di una violenza, sia molto difficile fermarsi. È come se esistesse cioè un punto di non ritorno, superato il quale le cose vanno avanti quasi da sole. La strategia migliore è evitare di innescare il meccanismo e esercitare il raziocinio finché è ancora possibile il controllo della situazione. Dentro di noi sonnecchia sempre una fiera: tutto sta nel non farla risvegliare. I più stentano a credere che, appena sotto la scorza dell’educazione e del rispetto reciproco, l’uomo sia rimasto sostanzialmente un animale. Ma è un errore di prospettiva, come di chi pensasse che non esistono più i batteri perché li sappiamo controllare con disinfettanti e antibiotici: se non li combattessimo in continuo, tornerebbero micidiali come una volta. Un essere vivente senza aggressività, d’altronde, sarebbe in grave svantaggio rispetto ai suoi simili.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d9…)

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•  Passiamo alla seconda macro-categoria: il male voluto e compiuto da qualcuno. Perché esiste?

Anche se è sempre il singolo che compie il male, questo può essere compiuto individualmente, cioè in relativo isolamento, in maniera spesso improvvisa e sotto la spinta di urgenze proprie, oppure lo può compiere una collettività più o meno estesa, sotto la spinta e per istigazione di istanze comuni. La responsabilità morale non cambia. Siamo gli animali di gran lunga più liberi, ma proprio per questo dobbiamo in qualche maniera riempire il vuoto lasciato dal depotenziamento degli istinti, tanto sul piano cognitivo quanto su quello comportamentale. A questo provvedono l’istruzione e l’educazione, prima all’interno del nucleo familiare, poi per opera della società in cui viviamo. Così non ci affidiamo più agli istinti, ma viviamo consultando in continuazione il codice di comportamento che abbiamo appreso e che approviamo in larga misura. Molti dei precetti che adottiamo come società (non uccidere, non rubare, non offendere, non ingannare…) mirano in definitiva a rendere il mondo meno imprevedibile e, conseguentemente, più sicuro per tutti.  [⇒]

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d8)

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•  Che dire, ancora, delle catastrofi naturali come inondazioni, siccità, terremoti, epidemie?

Ci troviamo a vivere in uno spazio ristrettissimo, in circostanze che, più che fortunate potremmo definire miracolose. Abitiamo infatti su un pianeta dalla struttura e dal clima particolarmente stabilizzati, nonostante abbia un cuore di fuoco e un’atmosfera protettiva dall’equilibrio delicato. Viviamo confinati in regioni ristrette di una fascia superficiale spessa soltanto qualche centinaio di metri (come dire un millesimo del diametro del pianeta). La posizione della Terra nello spazio e la presenza dell’atmosfera fanno sì che la temperatura della “scorza” abitata sia incredibilmente stabile e mite (se considerata in rapporto a temperature fisicamente possibili nell’universo). Solo grazie a queste condizioni e alla loro stabilità, la superficie del pianeta si è andata riempiendo di organismi viventi di tutti i tipi, legati gli uni agli altri dalla catena alimentare. Date queste premesse, l’unica cosa sensata è meravigliarci ogni volta che spunta un nuovo giorno. Ma questo non è nella nostra natura e ci lamentiamo, al contrario, di ogni turbativa dell’ordine costituito. Ciò è da attribuire al fatto che ormai ci siamo abituati a quello che abbiamo, al punto che ci sembra “dovuto”. La nostra necessità di identificare sempre una causa di ogni evento, inoltre, esclude quasi automaticamente l’accettazione del fatto che qualcosa possa accadere per caso. L’idea di casualità è una delle più difficili da cogliere per la nostra mente, perché implica la totale imprevedibilità. Il male delle cose, in definitiva, deriva dalla posizione “unica” in cui si trova la vita in generale: è la vita il vero “scandalo” dell’universo, e ancor più la vita della civiltà. Entrambe esistono per miracolo e sono sempre in pericolo di estinzione.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d7)

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•  Perché moriamo?

Con il passare del tempo le diverse parti del nostro corpo si usurano come qualsiasi componente di una macchina meccanica da noi costruita. A differenza di quest’ultima, però, le parti usurate del nostro corpo possono venire riparate sul posto e in tempo reale da meccanismi presenti nel corpo stesso. I processi di riparazione, però, sono estremamente efficaci nella prima età e sempre meno incisivi via via che l’invecchiamento avanza. Tali processi sono controllati a loro volta da altrettanti geni, che sono il prodotto della selezione naturale: alcuni, quelli corrispondenti alle riparazioni da eseguire prima dell’età riproduttiva, sono selezionati rigorosamente ai fini della massima efficienza; tutti gli altri vengono selezionati sempre più stancamente. Il risultato è che, episodio dopo episodio, si accumulano i danni dell’età in tutte le strutture biologiche, dalle più grandi (come i vasi sanguigni e le ossa) alle più piccole (come le membrane cellulari o lo stesso dna). Ogni singolo difetto può avere ben poca importanza, ma il complesso di tutti quelli accumulati dalle diverse strutture biologiche porta a un lento decadere delle strutture vitali che condurrà prima o poi alla morte. Quest’ultima può sopraggiungere per una varietà di motivi diversi, ma comunque sopraggiungerà, inevitabilmente.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d6)

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•  Perché invecchiamo?

Perché alla natura non interessa quello che ci succede dopo l’età riproduttiva. Fa di tutto per portarci a 30-35 anni in condizioni psicofisiche ottimali, e poi ci abbandona. Non è quindi una condanna ineluttabile, ma il risultato di un abbandono. E i viventi abbandonati a se stessi non vanno molto lontano, tendono a degenerare, perché obbediscono al secondo principio della termodinamica, che sancisce l’inevitabile, continuo aumento dell’entropia, cioè del disordine nel suo complesso.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d5)

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•  E che dire delle malattie, altro capitolo del male “indipendente” dalla nostra volontà? Perché ci ammaliamo?

Il punto centrale della questione è che nessuno può dirsi perfettamente e assolutamente sano, nemmeno in un particolare momento della sua vita. Qualche processo patologico è sempre in atto, in ciascuno di noi, in ogni momento. Esistono così tante forme diverse di malattia che non ci si deve meravigliare che qualcuno sia malato di qualche male, ma piuttosto che qualcuno sia sano, almeno momentaneamente. Esistono insomma infinite maniere di essere malato, ma una sola di essere sano, e la probabilità non gioca a suo favore. Questo vale per batteri e virus, che ci attaccano non certo per malvagità ma per nutrirsi e riprodursi, e vale anche per i tumori. I tumori che diagnostichiamo rappresentano le battaglie perse: il grande numero di battaglie vinte, in ogni parte del corpo e in ogni momento della nostra vita, passa ovviamente inosservato. Purtroppo il corpo può perdere lo scontro e lo fa in misura crescente con il passare degli anni. Ovviamente non è solo questione di tempo che passa: esistono sostanze e stili di vita che aumentano la probabilità che nelle cellule si formino nuove mutazioni e che quindi si proceda alla formazione di un tumore.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d4)

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•  Quale rapporto esiste fra la sofferenza per un male fisico e quella per un dolore psichico?

Oggi sappiamo che alcune aree cerebrali che si attivano in presenza di un dolore fisico si attivano anche in presenza di un forte dolore psichico, i cui sintomi somatici sono molto simili. Ed è interessante notare come molti di questi sintomi insorgano nelle regioni pericardiche (la classica “fitta al cuore” per un grosso dispiacere), dove si prova direttamente l’effetto dell’accelerazione improvvisa del battito cardiaco. Inoltre, proprio come il dolore fisico, anche quello psichico, almeno nella sua forma di dispiacere per una perdita o per un fallimento, ha all’origine una funzione di allarme e di spinta verso un cambiamento: occorre anche in questo caso fare qualcosa, benché non sia sempre così facile individuare che cosa. Più in generale, il dolore psichico appartiene al grande capitolo delle emozioni, movimenti somatici interni scatenati da qualcosa di visto o sentito o anche solo pensato: e questa è la più grande differenza rispetto al dolore fisico.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d3)

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•  Partiamo dunque dal male indipendente dalla volontà dell’uomo: di che si tratta?

Si tratta anzitutto del dolore fisico, che può provenire da stimoli esterni al nostro corpo o interni ad esso. Per sua natura, è un campanello di allarme (c’è qualcosa che non va fuori o dentro di noi) e deve per forza farsi notare. La percezione del dolore fisico è talmente importante per la sopravvivenza e l’integrità dell’organismo che esistono strutture biologiche specificamente dedicate a questo: i «nocicettori», particolari terminazioni nervose, che rilevano gli stimoli dolorosi nelle diverse parti del corpo e li inviano al cervello sotto forma di segnali nervosi, passando attraverso il midollo spinale. Lungo il percorso si presentano varie occasioni che permettono di attutire (o eventualmente esaltare) l’intensità dello stimolo doloroso. Il quale viene comunque recepito nel suo pieno significato e nella sua intensità solo nella corteccia cerebrale. Ora, se è vero che il dolore è un fatto naturale ed è stato selezionato perché aumenta la probabilità di sopravvivenza dell’organismo, non per questo noi uomini dobbiamo provare necessariamente dolore, soprattutto se è intenso e inutile. Un corpo sofferente non si fortifica, ma si indebolisce. Un sistema nervoso sofferente non si tempra, ma si sfibra. Il controllo del dolore è stato uno degli strumenti più rilevanti escogitati negli ultimi decenni per consentire a un essere umano di conservare la propria dignità. Ed entro ampi limiti, ci siamo riusciti attraverso la messa a punto e l’impiego di analgesici e narcotici.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d2)

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•  Quanti tipi di male esistono?

Nella mia indagine ho individuato tre categorie, distinte concettualmente in base all’individuazione delle responsabilità: il male che non ci deriva dal comportamento di un altro umano, quello causato da qualcuno e, infine, quello che proviene dal mio modo di essere, cioè il male insito in me. Come tutte le classificazioni è una semplificazione, magari eccessiva e arbitraria, ma mi pare comunque uno strumento utile per guardare negli occhi i diversi volti del male.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (d1)

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•  Professor Boncinelli, cos’è il male?

L’uomo chiama collettivamente male un certo numero di cose diverse: il dolore, la malattia, l’infermità, la consapevolezza della morte, il senso di inadeguatezza, la paura, l’ansia, la noia, il desiderio inappagato, la perdita, il sentimento dell’ingiustizia, la percezione della cattiveria e dell’invidia. In ogni caso, si tratta della constatazione di una certa differenza tra ciò che è e ciò che ci aspetteremmo che fosse. Che poi sarebbe il bene… In natura nozioni quali male e bene non hanno alcuna ragione d’essere: entrambi scaturiscono dai nostri giudizi di valore, che non si addicono certo al mondo naturale. Nessun animale si sognerebbe mai di biasimare o lodare le proprie o altrui azioni, a motivo, non fosse altro, della sua ben limitata libertà di scelta. Insomma è con l’uomo che compare il male: nasce con l’uomo e rimane circoscritto al suo mondo. Per lamentarsi, o per rimpiangere, occorre infatti la capacità di confrontare una serie di circostanze con le loro possibili alternative, compiendo un’azione riflessiva e comparativa che negli animali anche più evoluti è carente e può riguardare al massimo l’immediato presente, ma non il passato.

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (a1)

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Perché esiste il male? Da dove proviene? C’è modo di eliminarlo dal mondo? Sono domande che, prima o poi, tutti ci siamo posti e a cui di recente ha tentato di dare risposta un grande scienziato come Edoardo Boncinelli, fisico di formazione, per anni impegnato nello studio della genetica e della biologia molecolare, oggi docente alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute a Milano. Nel suo ultimo libro «Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza» (ed. Mondadori, 2007, pp. 258, 17.5 euro), presentato alla Fiera del libro di Torino, affronta il problema coniugando la grande esperienza di biologo con più ampie riflessioni di carattere psicologico, sociologico ed etico. «Il tema è stato per secoli sequestrato dai filosofi, come se in realtà non interessasse la quotidianità di ciascun uomo», spiega Boncinelli. «Così ho deciso di affrontarlo da un punto di vista scientifico, calandolo nel mondo reale, lontano da speculazioni astratte o accademiche, e concentrandomi sull’essere umano. Perché è nella natura umana la chiave per comprendere il male». Comunque, puntualizza, «vorrei fosse chiaro fin dall’inizio che non sempre comprendere e spiegare vogliono dire giustificare. Capire, infatti, appartiene al mondo dell’intelligenza e della ragione; giustificare al mondo dei sentimenti e delle valutazioni etiche, personali o pubbliche che siano, e socio-politiche».

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torinoscienza (17/5/2007) • Boncinelli: “Il male… (0)

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Boncinelli: “Il male nasce con l’uomo”


Secondo il noto scienziato il male è legato alla nostra libertà d’azione e capacità di compiere valutazioni

a cura di Lara Reale 
torinoscienza.it — 17/05/2007 (giovedì 17 maggio 2007)

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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (13-14)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

A fronte di un divario morfologico accentuato, sappiamo dalla biologia molecolare che la differenza genetica fra noi e le scimmie antropomorfe, come abbiamo visto nel secondo capitolo, è davvero piccolissima. Questa discrasia fra morfologia e genetica può essere spiegata soltanto se ammettiamo che, nel corso delle speciazioni, piccoli mutamenti genetici possano aver innescato trasformazioni morfologiche di considerevole portata.

Vedremo che questa spiegazione sarà utile per comprendere alcune svolte cruciali dell’evoluzione umana successiva, in particolare quando una minuscola mutazione genetica altererà i processi di regolazione dello sviluppo, regalando a una ristretta popolazione di australopitecine l’elisir di lunga vita.

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[]  T.  P i e v a n i,  ‹H o m o  s a p i e n s  e  a l t r e  c a t a s t o f i›,  M e l t e m i,  2 0 1 8³  (r i v.).
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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (11-12)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

Se misuriamo la differenza morfologica complessiva fra ‹Homo sapiens› e le scimmie antropomorfe da cui discende (una differenza consistente, anche solo in termini di ossa e di denti) e la dividiamo per la differenza morfologica media che esiste fra due specie di primati strettamente imparentate (una differenza di solito piccolissima) otteniamo un numero molto alto di speciazioni necessarie per produrre il divario fra noi e le antropomorfe. Se questa congettura statistica fosse corretta, nel nostro cespuglio dovrebbero essersi verificate molte altre speciazioni che ancora non conosciamo. Forse, molti ramoscelli sono ancora nascosti nelle pieghe oscure della nostra evoluzione e reclamano un riconoscimento.

La storia della nostra famiglia è stata probabilmente molto più ricca di eventi e di protagonisti di quanto non si fosse mai pensato. Il fatto che sia sopravvissuto un solo ramoscello dentro questo fitto dedalo di speciazioni non dovrebbe accrescere il senso di predestinazione con cui abbiamo spesso studiato l’evoluzione umana, ma indurre a un doveroso rispetto per la straordinaria (e fortunata) unicità del nostro percorso evolutivo. Negli intricati cespugli dell’evoluzione raramente sopravvive una sola specie terminale.

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[]  T.  P i e v a n i,  ‹H o m o  s a p i e n s  e  a l t r e  c a t a s t o f i›,  M e l t e m i,  2 0 1 8³  (r i v.).
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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (10)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

La storia raccontata in questo libro rappresenta una seconda oscillazione, non di ritorno alla confusione iniziale, ma di diversificazione e di moltiplicazione delle forme ominine. La difficoltà maggiore consiste nel valutare la quantità di speciazioni che effettivamente si sono realizzate all’interno del cespuglio. Secondo Eldredge e Gould le speciazioni sono piuttosto rare e “punteggiano” occasionalmente lunghi periodi di stabilità. A parere di Tattersall, invece, la diversificazione in popolazioni locali è sempre stata sufficientemente alta per generare molte specie geneticamente isolate, anche se le differenze morfologiche riscontrabili nella documentazione fossile sono minime. Questa valutazione nasce dal confronto fra il nostro cespuglio e gli altri cespugli dei primati, dove si riscontra in effetti questa alta variabilità intraspecifica. Se i nostri parenti più prossimi si sono comportati in questo modo in ambienti simili, non si vede perché gli ominini debbano aver fatto diversamente.

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[]  T.  P i e v a n i,  ‹H o m o  s a p i e n s  e  a l t r e  c a t a s t o f i›,  M e l t e m i,  2 0 1 8³  (r i v.).
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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (9)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

Nel corso del Novecento, ha notato Ian Tattersall, le preferenze dei paleoantropologi hanno oscillato due volte fra i due estremi. In una prima fase, il richiamo a criteri di distinzione esclusivamente morfologici creò una vera e propria inflazione in stile ‹splitter› di nomi e di specie ominine: a ogni nuova scoperta, soprattutto in Sudafrica e in Asia, le differenze morfologiche individuate sembravano supporre l’esistenza di una specie nuova e ben presto l’albero dell’evoluzione si ritrovò affollato di denominazioni e sigle confuse. In alcuni periodi il catalogo dei nostri antenati sembrò un bestiario medioevale: ‹Australopithecus prometheus›, ‹Paranthropus crassidens›, ‹Plesianthropus transvaalensis›, ‹Pithecanthropus modjokertensis›, ‹Telanthropus capensis›, ‹Titanohomo mirabilis›, e tanti altri fantasiosi nomi. Negli anni Quaranta, il successo del programma progressionista introdusse però una drastica semplificazione della tassonomia ominina, raggiungendo il postulato estremo di ritenere impossibile la compresenza persino di due specie coeve.

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[]  T.  P i e v a n i,  ‹H o m o  s a p i e n s  e  a l t r e  c a t a s t o f i›,  M e l t e m i,  2 0 1 8³  (r i v.).
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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (8)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

La definizione biologica di Mayr non scioglie tale incertezza. Per capirne le ragioni, analizziamo intuitivamente due atteggiamenti tassonomici estremi. Se diamo un’interpretazione lasca del confine fra le specie, è possibile che alcune delle specie ritenute ramoscelli laterali e indipendenti nel cespuglio degli ominini siano da ricondurre a un’unica specie: in tal caso, il nostro cespuglio subirebbe una vigorosa potatura e il numero di specie individuate crollerebbe (attitudine “lumper”, cioè di chi raggruppa in poche specie). Si tratterebbe in sostanza di un numero limitato di specie in evoluzione, con molte sottopopolazioni locali diverse. Se diamo invece un’interpretazione restrittiva del confine fra specie potremo ipotizzare un maggior numero di speciazioni ramificate indipendenti: ne deriverà l’immagine di un lussureggiante cespuglio, ricco di forme ominine indipendenti vissute contemporaneamente sullo stesso territorio (attitudine “splitter”, cioè di chi spezzetta il record fossile in molte specie). La calibratura tassonomica del concetto di specie modifica quindi il modello evoluzionistico risultante.

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[]  T.  P i e v a n i,  ‹H o m o  s a p i e n s  e  a l t r e  c a t a s t o f i›,  M e l t e m i,  2 0 1 8³  (r i v.).
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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (7)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

Benché la definizione biologica possa essere utile per molte specie viventi, è ancor più difficile riconoscerla nella documentazione paleontologica. Questa incertezza nell’individuazione di un confine preciso per le specie è alla base delle controversie sulla validità del modello a cespuglio per spiegare il ritmo e i modi dell’evoluzione umana. La stessa ambiguità coinvolge ovviamente la definizione di quale sia esattamente il confine fra i generi, cioè l’ordine immediatamente superiore alle specie: vi è chi, come Mayr, predilige una connotazione ecologica (per genere si intende un gruppo di specie imparentate adattate allo stesso ambiente) e chi preferisce altresì una più stretta connotazione genetica (per genere si intende soltanto un gruppo monofiletico di specie che condividono lo stesso antenato).

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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (6)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

La definizione biologica di specie ha rivoluzionato il modo di studiare e di classificare le specie negli ultimi decenni, perché ha sostituito la somiglianza anatomica come criterio di base per l’individuazione di una specie. Due popolazioni di organismi pressoché identici possono infatti appartenere a due specie diverse e, viceversa, gruppi di organismi diversi morfologicamente possono in realtà rientrare nella stessa specie: il criterio di base diventa la compatibilità riproduttiva e la misura della differenza fra due specie è data dal loro divario genetico. Tuttavia, tale definizione non ha semplificato la vita di zoologi e tassonomisti perché la compatibilità riproduttiva è una proprietà difficile da verificare con sicurezza. Le differenze anatomiche esteriori erano molto comode da valutare: se invece non c’è una corrispondenza diretta fra il divario morfologico e il divario genetico il mestiere di chi deve classificare si complica.

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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (5)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

La teoria della speciazione allopatrica deriva da una terza definizione di specie, che si distingue chiaramente sia dalla concezione tipologica predarwiniana sia dalla concezione nominalistica darwiniana. Secondo la definizione biologica datane da Ernst Mayr, si definisce “specie” un insieme di popolazioni di organismi “riproduttivamente chiuso”, cioè la più ampia popolazione entro la quale sia possibile l’incrocio fertile fra individui. Detto in altro modo, il confine di una specie è dato dal limite oltre il quale non vi è più flusso genico fra individui. Quando un sottoinsieme della popolazione originaria si stacca a tal punto che nessun organismo della specie figlia riesce più a incrociarsi con organismi della specie madre, oppure incrociandosi dà origine a una prole ibrida sterile (come fra cavallo e asino), gli zoologi possono ragionevolmente supporre che sia nata una nuova specie.

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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (3-4)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

Ricapitolando le grandi tappe del pensiero biologico moderno emergono tre definizioni differenti di “specie”. Nella tradizione scientifica pre-evoluzionistica la natura era suddivisa in forme atemporali che corrispondevano ai gruppi di organismi morfologicamente simili che erano stati osservati e classificati dai primi naturalisti. Le specie erano quindi le essenze eterne inscritte dal Creatore nel disegno della vita, i “tipi” fondamentali e idealizzati di cui era costituita la materia vivente.

Questa visione tipologica della specie viene respinta dalla teoria dell’evoluzione darwiniana, secondo la quale le unità discrete da cui ha origine il cambiamento evolutivo sono gli individui singoli, nella loro unicità, e non le specie. Queste ultime perdono relativamente di importanza, poiché una specie nell’ottica darwiniana non è altro che una collezione di organismi in qualche modo simili, ma in fase di lenta trasformazione e diversificazione. Le specie diventano etichette con le quali identificare provvisoriamente una popolazione di individui in evoluzione. Ai paleontologi non rimase dunque altra scelta che fissare di volta in volta un confine convenzionale, spesso coincidente con una “interruzione” della documentazione fossile. Fino agli anni Sessanta le specie mantennero questo statuto effimero: sequenze evolutive interrotte casualmente dalle lacune della documentazione geologica.

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Homo sapiens… • 3.7. Cespugli a fisarmonica… (1-2)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.7.  … l’ a m b i g u i t à  d e l  c o n c e t t o  d i  s p e c i e  •

Il cespuglio degli ominini sembra dunque abitato da una molteplicità di specie. Ma cosa sono esattamente le specie in ambito paleontologico? Perché un esemplare di ‹Australopithecus afarensis› appartiene a una specie diversa rispetto a un esemplare di ‹Australopithecus africanus›? Non potrebbero essere due popolazioni diverse della stessa specie? O, viceversa, ciò che classifichiamo come una singola specie non potrebbe nasconderne in realtà due o più?

In effetti, abbiamo discusso a lungo di specie e di speciazioni, ma non ci siamo soffermati adeguatamente su questo importante concetto della biologia evolutiva. Il fatto è che questa incertezza corrisponde ancora alla realtà scientifica: nonostante la sua familiarità, non è ancora ben chiaro quali siano i confini precisi che delimitano una specie da un’altra e tale questione è della massima importanza per la paleoantropologia. Le specie sono la categoria principale dell’analisi paleontologica, sono il pane quotidiano per biologi evolutivi, ecologi e naturalisti. La credibilità del modello a cespuglio dipende strettamente dal tipo di definizione che diamo del concetto di specie. Vediamo perché.

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Homo sapiens… • 3.6. Gli equilibri punteggiati (4-5)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.6.  G l i  e q u i l i b r i  p u n t e g g i a t i  •

Oggi molti dati convergono nel delineare un’immagine “puntuazionista” dell’evoluzione umana del tutto simile a quella delle altre famiglie di mammiferi. Le specie sono emerse a causa della trasformazione di piccole popolazioni rimaste isolate in nicchie ambientali caratterizzate da ripetute frammentazioni di habitat, a loro volta causate dall’instabilità climatica ed ecologica.

Questi eventi di ramificazione “punteggiarono” le linee di discendenza che altrimenti tendevano a rimanere stabilmente adattate ai loro habitat originari. Ne risultò un paesaggio di molteplici forme viventi organizzate “a cespuglio”, senza un tronco principale, con specie più longeve e specie passeggere, con alcune linee stabili e poco prolifiche che convissero con linee di discendenza molto ramificate, con periodi di rapida diversificazione in tutte le linee e periodi di estinzione trasversale. Il fatto che numerose specie convivano durante la stessa epoca e anche sullo stesso territorio diventa una conseguenza normale del modello puntuazionista.

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Homo sapiens… • 3.6. Gli equilibri punteggiati (3)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.6.  G l i  e q u i l i b r i  p u n t e g g i a t i  •

Il merito di aver compreso la necessità di introdurre la teoria degli equilibri punteggiati nello studio dell’evoluzione umana fu del paleoantropologo Ian Tattersall, allora responsabile del Dipartimento di Antropologia dell’American Museum of Natural History di New York, fra i maggiori esperti mondiali di primatologia, collega e amico di Niles Eldredge. Proprio con Eldredge, Tattersall pubblicò nel 1982 un libro polemico dal titolo ‹I miti dell’evoluzione umana›, nel quale attaccava il modello gradualista e lineare dell’evoluzione umana ancora dominante a dieci anni dalla formulazione della teoria degli equilibri punteggiati. L’intento dell’opera era quello di riportare l’immagine dell’evoluzione umana alla realtà della documentazione paleontologica, ormai colma di anomalie e di divergenze rispetto al modello scalare. Era necessaria, scrissero Eldredge e Tattersall, una svolta interpretativa radicale nello studio dei fossili di ominini.

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Homo sapiens… • 3.6. Gli equilibri punteggiati (2)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.6.  G l i  e q u i l i b r i  p u n t e g g i a t i  •

Grazie alla teoria degli equilibri punteggiati la paleontologia tornò a essere una disciplina “affidabile”, poiché le ramificazioni rapide e i lunghi periodi di apparente inattività che caratterizzano la vita delle specie furono finalmente intesi alla lettera e non come imperfezioni provvisorie dei reperti. Fu così che negli anni settanta i paleontologi riesaminarono i loro dati con uno spirito del tutto nuovo. La nozione di “equilibrio punteggiato” fu ulteriormente raffinata, specificando meglio l’intreccio di dinamiche ecologiche e dinamiche genetiche che produce la speciazione. Oggi sappiamo che una percentuale effettivamente alta di innovazioni morfologiche avviene in coincidenza con episodi di speciazione. Peraltro, non è necessario che si instauri una totale separazione fisica fra due popolazioni, giacché le suddivisioni interne alla popolazione (dovute per esempio a modificazioni comportamentali nel reperimento delle risorse e nell’accoppiamento) possono creare unità demografiche distinte che tendono a frammentare l’omogeneità genetica della specie.

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Homo sapiens… • 3.6. Gli equilibri punteggiati (1)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.6.  G l i  e q u i l i b r i  p u n t e g g i a t i  •

Un anno dopo, insieme al collega Stephen J. Gould, che era giunto alle medesime conclusioni studiando la diversificazione di alcune specie di chiocciole terrestri, Eldredge diede alle stampe un articolo che segnerà la storia della biologia della seconda metà del Novecento, dal titolo ‹Punctuated Equilibria: An Alternative to Phyletic Gradualism›. Secondo la teoria degli equilibri punteggiati la storia naturale non è sempre riconducibile a un modello di crescita graduale, continuativa e cumulativa, ma talvolta è riconducibile a un modello di stabilità morfologica duratura “punteggiata” da episodi di brusco cambiamento, durante i quali si decidono la vita, la morte e la reciproca sostituzione delle specie.

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Homo sapiens… • 3.5. I trilobiti della East Coast (6)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.5.  I  t r i l o b i t i  d e l l a  E a s t  C o a s t  •

Qual era la piccola e preziosissima storia dei trilobiti della East Coast? Una storia di stabilità interrotta da brevi periodi di cambiamento: nell’areale di New York la specie originaria si biforca e dà origine per speciazione a una nuova forma, di maggior successo anche se dotata di una modificazione morfologica minima, che in breve tempo sostituisce la precedente e dopo alcuni milioni di anni colonizza anche il lontano areale del Midwest. È dunque la storia di una speciazione allopatrica rapida e fortunata, che interrompe un lungo periodo di stabilità nella vita dei trilobiti. È un racconto di speciazioni improvvise, di competizione per le risorse, di colonizzazioni e di estinzioni.

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Homo sapiens… • 3.5. I trilobiti della East Coast (5)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.5.  I  t r i l o b i t i  d e l l a  E a s t  C o a s t  •

La chiave della svolta era già racchiusa nell’idea di speciazione allopatrica. Nel 1971 Niles Eldredge pubblicò i risultati di uno studio molto esteso e approfondito su migliaia di esemplari di trilobite, appartenenti a due specie diverse, rinvenuti nello stato di New York e nel Midwest. Il primo dato che colpì la sua attenzione fu la persistente stabilità evolutiva delle due specie. Nel Midwest i trilobiti rimasero identici a se stessi per otto milioni di anni, per essere poi sostituiti improvvisamente da esemplari con una piccola modificazione nella struttura degli occhi (composti non più da diciotto file di lenti ma da diciassette file). Nei siti dello stato di New York l’andamento era analogo: la prima specie con diciotto file di lenti domina per un tempo lunghissimo, finché si assiste alla transizione rapidissima alla nuova forma con diciassette file di lenti. Per sua buona sorte, Eldredge riuscì a trovare anche alcuni esemplari coetanei ma appartenenti a specie diverse, segno che vi era stato un breve periodo di transizione in cui le due specie erano vissute insieme.

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Homo sapiens… • 3.5. I trilobiti della East Coast (4)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.5.  I  t r i l o b i t i  d e l l a  E a s t  C o a s t  •

Il merito di avere connesso questa intuizione, presente ‹in nuce› nella teoria della speciazione allopatrica, con la realtà dei dati paleontologici fu di due allievi di Ernst Mayr, Niles Eldredge e Stephen J. Gould. I due giovani paleontologi, nel corso delle loro prime ricerche sul campo nella seconda metà degli anni Sessanta, avevano notato che le specie osservabili non sembravano affatto sfumare l’una nell’altra impercettibilmente né sembravano accelerare improvvisamente un ritmo di cambiamento altrimenti uniforme. La documentazione geologica mostrava ai loro occhi due fenomeni complementari: le specie mostravano lunghi periodi di generale stabilità, durante i quali subentravano pochissimi cambiamenti morfologici, solcati da brevi periodi di cambiamento durante i quali comparivano repentinamente nuove forme. Le specie sembravano spuntare rapidamente come funghi, per poi rimanere uguali a se stesse per milioni di anni, salvo poi estinguersi spesso con la medesima rapidità del loro arrivo. Questo schema non gradualista era davvero il frutto perverso di una scarsa e inaffidabile documentazione? O c’era dell’altro?

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Homo sapiens… • 3.5. I trilobiti della East Coast (2-3)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.5.  I  t r i l o b i t i  d e l l a  E a s t  C o a s t  •

Rimaneva tuttavia inevasa un’importante questione, relativa ai tempi di tali speciazioni. Abbiamo visto che una strategia di sottovalutazione dei dati paleontologici, attestanti la presenza di frequenti episodi di brusco cambiamento negli alberi evolutivi, era stata quella di ipotizzare che in alcune occasioni l’evoluzione di una specie, sotto l’effetto della selezione naturale, potesse subire delle accelerazioni di ritmo. Il meccanismo dell’evoluzione rimaneva sempre lo stesso, cambiava soltanto la velocità relativa.

La teoria della speciazione allopatrica introdusse rispetto a questa strategia un elemento nuovo: un evento geografico isolava una piccola porzione della popolazione e portava alla nascita di una nuova specie. Questo processo poteva realizzarsi in tempi molto brevi. Non si trattava più di un’accelerazione della velocità all’interno di un processo selettivo, ma di una divergenza repentina introdotta da un fattore esterno.

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Homo sapiens… • 3.5. I trilobiti della East Coast (1)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.5.  I  t r i l o b i t i  d e l l a  E a s t  C o a s t  •

La scoperta della molteplicità di forme ominine, in molti casi vissute contemporaneamente in suolo africano per centinaia di migliaia di anni, rappresentava davvero uno scacco per le concezioni progressioniste. Il dogma della presenza di una sola specie ominina per volta cadeva sotto i colpi delle evidenze empiriche. L’evoluzione umana assomigliava sempre più ai sentieri tortuosi e ramificati che caratterizzano tutti i diagrammi evolutivi dei mammiferi e gli scienziati cominciarono ad applicare la teoria ecologica della speciazione all’intero cespuglio degli ominini. Come nel processo verificatosi in occasione della “East Side Story”, essi ritennero plausibile che in ogni evento di ramificazione all’interno del nostro cespuglio fosse avvenuta una speciazione allopatrica o un evento analogo.

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Homo sapiens… • 3.4. I robusti: un quarto genere… (7-9)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.4.  … u n  q u a r t o  g e n e r e  d i  o m i n i n i  •

Il conto delle specie e dei generi sale ulteriormente. Non abbiamo ancora superato la soglia dei 2 milioni e mezzo di anni, non è ancora comparso il genere ‹Homo› e già la famiglia ominina conta ben 14 specie distinte, suddivise in quattro generi. Una tale diversità di forme stride ormai radicalmente con la gabbia concettuale del progresso lineare: i quattro gradini classici verso la perfezione di ‹Homo sapiens› sono andati in frantumi e al loro posto troviamo una selva di ominini ramificati e dispersi in un areale molto ampio. Se confrontata con gli andamenti “a cespuglio” di molti altri mammiferi, la nostra evoluzione non sembra avere nulla di speciale.

Questa naturalizzazione del modello dell’evoluzione umana, gravida di conseguenze assai interessanti per la collocazione dell’umanità nella natura e per una diversa concezione della relazione fra l’uomo e l’ambiente, è figlia di una trasformazione profonda della biologia evoluzionistica avviata nei primi anni Settanta, quando la teoria della speciazione allopatrica di Mayr venne estesa a molti processi di diversificazione evolutiva.

Senza questo aggiornamento della teoria evoluzionistica non avremmo gli strumenti per concepire e per interpretare i cespugli di diversificazione dei mammiferi e, fra questi, il cespuglio degli ominini.

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Homo sapiens… • 3.4. I robusti: un quarto genere… (5-6)

  •  P i e v a n i  (2 0 1 8)  •  3.4.  … u n  q u a r t o  g e n e r e  d i  o m i n i n i  •

Questi tratti distintivi di tipo anatomico e adattativo hanno indotto alcuni paleoantropologi a classificare le forme robuste in un nuovo genere, cioè in una collezione di specie separata dal genere ‹Australopithecus› e chiamato ‹Paranthropus›. Le tre forme sono state così riclassificate nella famiglia sempre più numerosa degli ominini: ‹Australopithecus robustus› (cioè “black skull” e altre forme etiopiche scoperte da Coppens già nel 1967) è stato ribattezzato ‹Paranthropus aetiopicus› (il capostipite dei parantropi, con caratteristiche molto vicine ad ‹afarensis›); ‹Australopithecus boisei› è stato ribattezzato ‹Paranthropus boisei›; mentre le forme meridionali sono state chiamate ‹Paranthropus robustus› (confermando il nome dato loro da Broom).

Si tratta di una classificazione indicativa, che presto sarà aggiornata con l’arrivo di nuovi protagonisti. Ci sono infatti molti siti, in Sudafrica, ricchi di resti fossili appartenenti al genere ‹Paranthropus› e ancora da decifrare. Anche le origini filogenetiche dei parantropi dalle australopitecine sono oggetto di discussione. Come forse avrete intuito, i sostenitori della East Side Story, come Donald Johanson, propendono per una derivazione primaria dei parantropi da ‹afarensis› in Africa orientale, mentre i sostenitori della South Side Story preferiscono una ramificazione dei parantropi da ‹africanus›.

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