Ricapitolando le grandi tappe del pensiero biologico moderno emergono tre definizioni differenti di “specie”. Nella tradizione scientifica pre-evoluzionistica la natura era suddivisa in forme atemporali che corrispondevano ai gruppi di organismi morfologicamente simili che erano stati osservati e classificati dai primi naturalisti. Le specie erano quindi le essenze eterne inscritte dal Creatore nel disegno della vita, i “tipi” fondamentali e idealizzati di cui era costituita la materia vivente.
Questa visione tipologica della specie viene respinta dalla teoria dell’evoluzione darwiniana, secondo la quale le unità discrete da cui ha origine il cambiamento evolutivo sono gli individui singoli, nella loro unicità, e non le specie. Queste ultime perdono relativamente di importanza, poiché una specie nell’ottica darwiniana non è altro che una collezione di organismi in qualche modo simili, ma in fase di lenta trasformazione e diversificazione. Le specie diventano etichette con le quali identificare provvisoriamente una popolazione di individui in evoluzione. Ai paleontologi non rimase dunque altra scelta che fissare di volta in volta un confine convenzionale, spesso coincidente con una “interruzione” della documentazione fossile. Fino agli anni Sessanta le specie mantennero questo statuto effimero: sequenze evolutive interrotte casualmente dalle lacune della documentazione geologica.
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K E Y W O R D S
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[] T. P i e v a n i, ‹H o m o s a p i e n s e a l t r e c a t a s t o f i›, M e l t e m i, 2 0 1 8³ (r i v.).
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