I primi dubbi su tale scempio di primigenia crudeltà cominciarono a emergere quando si resero disponibili tecnologie più avanzate di datazione e di valutazione dei reperti, nel secondo dopoguerra. Ci si accorse, innanzitutto, che molti cumuli di ossa non erano intenzionali, ma prodotti dagli agenti atmosferici o dalla caduta delle ossa da cunicoli aperti nel terreno sovrastante alle grotte. La colorazione nera era dovuta al manganese. I segni di rosicchio sulle ossa dei mammiferi e degli ominini erano stati fatti dai dentini di porcospini e di altri piccoli roditori. Uno scenario decisamente più rilassante. Ma il colpo di scena cominciò a maturare alcuni anni dopo, grazie al lavoro certosino di una nuova generazione di paleoantropologi, allievi di Philip Tobias. Lee Berger e Ronald Clarke scoprirono che, in almeno un caso, i resti di un giovane australopiteco mostravano i segni di una tecnica di “cattura” inconfondibile: era stato rapito e ucciso da una grande aquila. Furono così revisionati altri ritrovamenti e il cranio bucato svelò il suo mistero: la grandezza dei fori e la distanza fra di essi corrispondevano perfettamente al morso preciso e tenace di un leopardo. Lo sfortunato cucciolo di australopiteco era stato catturato da un felino 2 milioni e 800.000 anni fa, trascinato per la testa nel nascondiglio e dato forse in pasto ai piccoli di leopardo.
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K E Y W O R D S
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[] T. P i e v a n i, ‹H o m o s a p i e n s e a l t r e c a t a s t o f i›, M e l t e m i, 2 0 1 8³ (r i v.).
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