Sei anni dopo Mayr intervenne con uno studio che risaliva molto indietro nel passato, giungendo anch’egli alla conclusione che non era possibile individuare nella documentazione fossile più di una specie umana per ciascun punto nel tempo. Oltretutto, fece osservare Mayr, nell’intero arco temporale che separa l’uomo attuale dalle prime forme bipedi allora note (i primitivi australopiteci, dal modesto volume cerebrale), aveva potuto trovare testimonianze di sole tre specie: ‹Homo transvaalensis› (gli australopiteci), ‹Homo erectus› e ‹Homo sapiens›. Solo tre specie (molto differenti fra loro) in tre milioni di anni come testimonianza degli immensi mutamenti fisici intervenuti nella nostra filogenesi!
Non vi è dubbio, tuttavia, che nel proporre queste opinioni Dobzhansky e Mayr abbiano reso un servizio notevolissimo alla paleoantropologia, una scienza in cui l’inflazione dei nomi era stata fortissima. Una visione essenzialmente non biologica delle specie e il mancato riconoscimento dell’importanza della variazione intraspecifica fra individui e fra popolazioni aveva permesso che troppe nuove denominazioni si insinuassero nella letteratura sull’evoluzione umana, quasi come se ciascun nuovo fossile dovesse necessariamente ricevere un proprio nome formale per essere convalidato.
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K E Y W O R D S
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[] I. T a t t e r s a l l, ‹I l c a m m i n o d e l l’ u o m o›, B o l l a t i B o r i n g h i e r i, 2 0 1 1.
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