[⇐] Per un ingegnere, infatti, l’origine pelagica dell’occhio «è un’ovvia conseguenza delle proprietà ottiche dell’acqua marina». I nostri occhi sono sensibili solo alla porzione dello spettro elettromagnetico — la “luce visibile” appunto, compresa tra le frequenze dell’infrarosso e dell’ultravioletto — che nell’acqua marina riesce a percorrere distanze apprezzabili, mentre le altre frequenze sono rapidamente attenuate per assorbimento o diffusione. Se il nostro occhio fosse stato progettato per la visione sulla terra sarebbe stata più funzionale anche la sensibilità ad altre frequenze, come ad esempio l’ultravioletto che molti uccelli possiedono. Denny e McFadzean evidenziano poi un “vizio di progetto” dei nostri occhi, incorporato in epoca remota, rispetto a quello dei cefalopodi come polpi, calamari e moscardini, che si sono evoluti separatamente. Dal punto di vista ingegneresco, si tratta di «uno sbaglio da sprovveduti», ossia il cablaggio a rovescio dei fotorecettori dei coni e bastoncelli — le cellule della retina sensibili alla luce — che fa sì che nel nostro occhio ci sia un punto cieco dove il nervo ottico attraversa la retina per portare i segnali al cervello. Cosa che non accade ai cefalopodi, che hanno i fotorecettori cablati correttamente, e sono inoltre sensibili alla luce polarizzata oltre che capaci di emetterla. Ma, commentano Denny e McFadzean, «per conferire un vantaggio evolutivo non importa che le soluzioni trovate dall’evoluzione siano perfette».
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K E Y W O R D S
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