Così piace al ristretto e facoltoso pubblico che frequenta le aste a Londra, a New York, in Svizzera. Il valore economico delle mucche squartate e conservate da Hirst in teche simil-acquario è da capogiro [1]. Non importa se fra dieci anni saranno poltiglia. Per gli artifici della finanziarizzazione dell’arte contemporanea, per i tycoon ultramiliardari che le acquistano, conta la spettacolarizzazione, il gigantismo, la dismisura, in spregio alla crisi. Non importa se l’effetto è palesemente kitsch. Il fatto che opere di questo tipo siano diventate uno status symbol per pochi (chi, anche volendo, potrebbe tenerle in salotto?) ha fatto strage di ogni altro significato. Ai galleristi non importa se tutto ciò abbia provocato un impoverimento culturale della proposta, gli interessa che l’opera abbia le caratteristiche per essere vendibile all’upper class. Il pubblico che frequenta le biennali, le gallerie e i musei del contemporaneo, del resto, non se ne lamenta. Anzi. Sembra sentirsi parte di una élite, di un circolo esclusivo, di una «statu-sfera», direbbe Tom Wolfe [2]. «L’arte contemporanea è un surrogato della religione, che si celebra in ghetti patinati», scrive la storica dell’arte Sarah Thornton [3]. Una religione dogmatica, aggiungerei, che non ammette critiche. Ed è questo forse l’aspetto più bizzarro dell’attuale Art world.
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NOTE
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[1]. Il teschio tempestato di brillanti creato da Damien Hirst (classe 1965) costa più di 100 milioni di dollari, ma pezzi più domestici firmati dal capofila della Young Brit Art come lo skateboard puntinato, la sedia a sdraio e la carta da parati con motivo a farfalle costano rispettivamente 480 sterline, 310 sterline e 700 sterline al rotolo. Hirst deve la sua fama e il successo nel mercato globale alla famosa Saatchi Gallery di Londra, fondata da Charles Saatchi.
[2]. Classe 1931, Tom Wolfe è uno degli inventori del New Journalism. Ma anche di una serie di folgoranti e caustiche ‘etichette’, come quella di ‘radical chic’ che mette alla berlina le pretese di chi si presenta da combattente rivoluzionario, ma sotto nasconde un ricco e triviale borghese. Un’altra figura è quella del collezionista che accumula opere, appunto, come connotazioni di status sociale, solo per apparire e accreditarsi nell’upper class.
[3]. S. Thornton, ‹Il giro del mondo dell’arte in sette giorni›, Feltrinelli, Milano 2009, p. 10.
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[] S. M a g g i o r e l l i, ‹A t t a c c o a l l’ a r t e›, L’ A s i n o d’ o r o, 2 0 1 7.
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