[⇐] Parigi era l’epicentro. In quella realtà metropolitana in fermento si coagulavano gruppi di artisti, nascevano movimenti, sui giornali si pubblicavano manifesti che proponevano nuovi modi di intendere l’estetica. Il fenomeno dei collettivi di artisti basati sulla condivisione di un progetto, che è quasi del tutto sparito nel nuovo millennio. «Nel corso del primo decennio del Novecento era divenuto tecnicamente possibile un mondo trasformato e si poteva già riconoscere l’esistenza delle forze necessarie al cambiamento, pensare a un ‘uomo nuovo’. Il Cubismo è stato l’arte che rifletteva la possibilità di questo mondo trasformato e la fiducia che esso ispirava. Perciò esso ha rappresentato l’arte più moderna, oltreché la più complessa sul piano filosofico, che sia finora esistita», ha scritto John Berger in ‹Questione di sguardi› (1998) [10]. Attraverso la distruzione della figura, i cubisti aprivano la strada a una visione nuova che invita lo spettatore a partecipare, a entrare in risonanza, mettendo in gioco la propria sensibilità interna. In questo modo i cubisti non solo alludevano a un progetto politico di trasformazione della società, ma anche alla possibilità di superare la scissione fra cosciente e inconscio sancita già dal ‹logos› greco, fin dall’epoca di Platone.
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NOTE
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[10]. Saggista, romanziere, disegnatore, John Berger (1926-2017) è stato uno dei critici d’arte che più hanno riflettuto sul tema dello sguardo e dell’arte come forma di resistenza, se non di vera e propria sovversione, verso l’oppressione dell’ideologia capitalista che con la globalizzazione è diventata pervasiva.
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[] S. M a g g i o r e l l i, ‹A t t a c c o a l l’ a r t e›, L’ A s i n o d’ o r o, 2 0 1 7.
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