Il processo attraverso cui si è giunti a questo inaridimento è complesso e come abbiamo accennato coinvolge aspetti legati alle strategie globalizzanti del mercato dell’arte, al prevalere dell’‹homo oeconomicus›, basato su una razionalità strumentale, tutta volta all’acquisizione e al consumo. Un percorso che parte da lontano se, come è stato rilevato da storici ed economisti, alla grande depressione del 1929, negli Usa (vero epicentro del Postmoderno), non seguì una elaborazione, ma una sorta di annullamento euforico. Quasi d’un tratto l’America si era trovata precipitata nell’era reaganiana, dei templi commerciali, del capitalismo selvaggio. Mentre i fast food diventano la metafora di un’intera epoca. In questo tripudio di vanità dell’era reaganiana e thatcheriana si scambia l’architettura per design e viceversa, producendo caffettiere come palazzi e palazzi come posaceneri, le opere d’arte diventano giganteschi gadget ed elitarie ‹vanitas›, come il teschio tempestato di diamanti di Damien Hirst. Degradando il pubblico a guardone invidioso e a consumatore, generando un lungo tunnel creativo da cui il mainstream proposto dal mercato internazionale dell’arte non è ancora uscito.
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[] S. M a g g i o r e l l i, ‹A t t a c c o a l l’ a r t e›, L’ A s i n o d’ o r o, 2 0 1 7.
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