Anche i labirintici percorsi dei decostruzionisti e le estetiche anti-identitarie sessantottine hanno prodotto granitici idoli. Fra questi potremmo citare Guy Debord, l’autore de ‹La società dello spettacolo›, che nel 1957 promosse l’‘internazionale situazionista’, movimento improntato a logiche staliniste con purghe ed esclusioni, morto suicida nel 1994 con un colpo di carabina, seguito pochi giorni dopo dallo scrittore e sodale Roger Stéphane e dall’editore di entrambi, Gérard Voytex [19].
Dalle opposte sponde dell’oceano negli anni Sessanta si diffusero movimenti di pensiero ed estetiche che propagandavano un’idea di libertà assoluta, senza identità, facendo inconsapevolmente propria la logica dispersiva, disgiuntiva, dissociata del capitalismo tanto aborrito. In un coacervo di posizioni ideologiche antinomiche che si incontravano sul terreno dell’arte, basta pensare a una figura ambigua come quella di Joseph Beuys che aderì al nazismo e dopo la guerra diventò fautore di un’estetica populista, basata su simboli pacifisti, spiritualisti e di ritorno alla natura. Negli anni Sessanta si proponeva come sciamano dell’arte e demagogicamente proclamava: «Ogni uomo è un artista; tutto ciò che fate è arte». Nasceva così, scrive Jean Clair, «il totalitarismo degli imbecilli alla Beuys!».
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NOTE
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[19]. E. Baj, P. Virilio, ‹Discorso sull’orrore dell’arte›, Elèuthera, Milano 2002, p. 48.
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[] S. M a g g i o r e l l i, ‹A t t a c c o a l l’ a r t e›, L’ A s i n o d’ o r o, 2 0 1 7.
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