Dopo la fine delle avanguardie storiche, con il Sessantotto (anno delle rivolte giovanili, ma anche della morte di Duchamp) trionfa il supermercato dell’arte messo in atto da Andy Warhol; ‘diventa legge’ la «trasfigurazione del banale», per usare le parole del filosofo e critico d’arte Arthur Danto. La raffigurazione di prodotti commerciali, Marilyn ridotta a figurina inanimata, fumetti sgargianti in gigantografia, la serie dei Brillo Box, le lattine Campbell’s e le altre opere ideate da questo personaggio poco loquace che amava strane parrucche non alludono a niente altro oltre se stesse, tutto ciò che c’è da vedere e da capire è in superficie. Non c’è altro oltre la realtà materiale inerte e ottusa, sembra dire Andy Warhol. È sparita interamente la ricerca sulle immagini. Restano solo gli scarti solidi del consumismo riprodotti in modo meccanico. Nella società dello spettacolo non c’è spazio se non per gli ologrammi che vediamo in tv. La Pop art ha vinto imponendo una visione razionale, oserei dire schizoide della realtà: la realtà psichica non esiste, dice la Pop art, condannandoci a un insensato consumismo maniacale. Un così brutale e totalizzante schiacciamento sulla realtà reificata non ha pari in altri settori artistici. L’estetica è diventata cosmesi e la logica dell’apparire predomina. Benvenuti nel luna park del turbocapitalismo che si autorappresenta quasi come elemento di natura, ultimo orizzonte della storia dominato dal dio mercato. [⇒]
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[] S. M a g g i o r e l l i, ‹A t t a c c o a l l’ a r t e›, L’ A s i n o d’ o r o, 2 0 1 7.
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