Protagonista assoluto del movimento fondato da André Breton negli anni Venti a Parigi fu Marcel Duchamp, «il grande illusionista», per dirla ancora con Jean Clair. Con i suoi ferri da stiro e orinatoi, incorniciati ed etichettati come pezzi da museo, ha fatto di oggetti comuni, di prosaico uso quotidiano, degli oggetti di culto. Banalmente, conta dove lo metti, non cosa è. Duchamp, che amava i travestimenti e si faceva ritrarre acconciato come una donna con lo pseudonimo Rrose Sélavy, metteva in atto una strategia di comunicazione, basata sull’ambiguità, su un doppio messaggio, sul paradosso, come accade per esempio nella ‹Gioconda con i baffi›, diventata poi un exemplum nella tecnica pubblicitaria. Con la provocazione dell’‹object trouvé›, più che una risemantizzazione dell’oggetto, Duchamp cercava lo choc, lo svisamento che, in ultima istanza, potrebbe anche far nascere pensieri nuovi, ma più spesso determinava un nonsense, un corto circuito nella comunicazione. Inneggiando all’«automatismo psichico puro» e utilizzando tecniche come la scrittura automatica, emergeva un discorso senza nessi, senza senso. L’obiettivo di Duchamp e compagni era l’oltrepassamento dell’arte; il risultato era piuttosto la sua negazione. [⇒]
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[] S. M a g g i o r e l l i, ‹A t t a c c o a l l’ a r t e›, L’ A s i n o d’ o r o, 2 0 1 7.
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