Nell’esempio discusso sopra, invece, la volontà dell’agente è ragion ‹sufficiente› della sua (cattiva) azione — e ciò anche se ‹comunque› non avrebbe potuto fare altrimenti. Secondo Frankfurt, ciò che conta per la corretta attribuzione di responsabilità è che il reale corso d’azione sia tale che l’azione di Rossi non avvenga ‹solo perché› il neurofisiologo è intervenuto. Questo, invece, è esattamente ciò che accade nel caso di una persona ipnotizzata, quando la ragione per cui una certa azione è compiuta è proprio, e soltanto, l’intervento di un fattore determinante — diverso dalla volontà dell’agente — che funge dunque da unica ‹causa sufficiente› per il compimento di quell’azione. Questo spiega, secondo Frankfurt, la ragione per cui in casi del genere l’agente non viene ritenuto responsabile dell’azione: egli, infatti, «ha agito come ha agito ‹soltanto perché› era impossibilitato a fare altrimenti o ‹soltanto perché› doveva agire così» e non perché «egli voleva compiere ‹veramente› quell’azione». In sostanza, dunque, «una persona non è moralmente responsabile per ciò che ha fatto, se l’ha fatto ‹soltanto perché› non avrebbe potuto fare altrimenti» [53]. In tal modo, l’unico aspetto rilevante per una corretta attribuzione di responsabilità è se la volontà dell’agente sia parte integrante della ragione sufficiente dell’azione o no (e in tal caso è del tutto ininfluente se, per soprammercato, l’agente non avrebbe potuto fare altrimenti).
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N O T E
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[53]. Frankfurt (1969, p. 131); gli ultimi due corsivi sono miei.
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K E Y W O R D S
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[] M. D e C a r o, ‹I l l i b e r o a r b i t r i o …›, L a t e r z a, 2 0 0 4.
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