‹I pugni in tasca› era, per i più acuti, prima di tutto un “atto morale”, l’espressione di un bisogno, di un’esigenza di catarsi e quasi d’esorcismo, nello stesso tempo nutrito con la sua volontà di aggressione e di azzeramento di densi umori pre-sessantotteschi. Così come lo è ‹Salto nel vuoto›, nel senso di un progetto d’analisi. L’uno e l’altro film, acutissimi detector di due tempi, di realtà fra cui il loro autore si muove e s’orienta per vie tortuose ma con lucido istinto. Di fronte all’espandersi di un cinema ‹entropico› che si nutre di se stesso, che si pone come “doppio” e universo totale, quello di Bellocchio è uno dei pochi, pochissimi film contemporanei che si pone il problema della forma del discorso, vale a dire di un linguaggio capace di ricuperare al cinema un qualche rapporto con la realtà, rapporto attivo con i mutamenti e i disagi profondi, non semplice ‹riflesso› funzionale di segni e immagini usurate o iperbole narcisista. La sua non è mai stata una “rabbia” estetica, sin dagli inizi era ben coltivata, capace di calibrare momento, bersaglio, forma e di toccare nodi, conflitti veri e spesso centrali. Via via più determinata, non si è, però, fatta “voce armoniosa che viene dalla città degli inferi”, com’è di tanti autori ribelli e decadenti. Ha il sapore aspro e urtante delle cose che ci toccano da vicino.
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K E Y W O R D S
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[] M. B e l l o c c h i o, ‹S a l t o n e l v u o t o›, U n i v. e c o n. F e l t r i n e l l i, 1 9 8 0.
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