Il nazionalismo, scrive Tanja Rener, fa leva sulla comunità e sul sentimento, sulle categorie premoderne della terra, del sangue, della famiglia. Le donne, relegate da sempre in queste zone di frontiera della storia, ma pronte a riemergere in ogni crisi o mutamento della civiltà, vengono sollecitate a riprendersi antiche prerogative, quelle che le hanno viste come custodi della casa, della prole, ma anche dei valori più alti della comunità: madri di eroi e baluardo delle virtù della nazione.
Negate sempre e comunque come individui, tuttavia, osserva Rener, mentre lo stato socialista le aveva considerate solo come “soggetti sociali” svantaggiati, da proteggere ed emancipare, i nuovi stati nazionali le riportano a quella “differenza specifica” che è stata contraddittoriamente il loro asservimento e la loro esaltazione immaginaria. “Le metafore nazionaliste della famiglia parlano di uomini come figli, padri e amanti della casa, patria, nazione… regressione, ritorno al seno materno del figlio che nella ‘fratellanza fra le nazioni’ aveva perduto la vera madre”. Se la nazione è un’idea tutta maschile, e la sua nascita è coincisa con il dominio di una comunità “omogenea”, in quanto fondata su una genealogia patriarcale, è innegabile, tuttavia, che il richiamo alla patria come “coesione organica”, rimanda al corpo materno e a quella irripetibile “fusione” di cui resta, amato e temuto, protagonista.
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K E Y W O R D S
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