• C’è, in tutti i tuoi film, un’attenzione costante per un motivo, una figura ricorrente: la teatralità, intesa come fatto, evento, rappresentazione capace di rinviare per contiguità ad un’altra rappresentazione (quella cinematografica), e come istanza formale, serbatoio di moduli stilistici ed espressivi.
Quasi sempre il teatro che vediamo è rituale non per una scelta di stile ma perché manca totalmente di originalità e ripete, in caricatura, cose già viste e già fatte. Una parodia fredda, vuota, priva di vita (e non importa se si recita Shakespeare, Čechov, Beckett o Diego Fabbri). Gli attori alzano la voce perché il pubblico senta ma in realtà pubblico e attori, ognuno va per i fatti suoi, pensa ad altro. Alla fine c’è il rito degli applausi. Questa ritualità non prevista, automatica e dissociata, e noiosissima assomiglia proprio alla piccola ritualità borghese, (le colazioni, le cene, i bagni, le varie evacuazioni, i pavimenti, le bollette…) dove non succede mai niente di nuovo e si ripetono sempre le stesse cose pensando ad altro.
Ma quando non è così il teatro è qualcosa di straordinario; è straordinario partecipare a una rappresentazione dove degli attori vivono dei personaggi, sono in quel momento i personaggi che vivono. C’è in quel momento un rapporto profondamente sensuale tra gli attori e il pubblico che ogni sera può sconfiggere la dannazione della replica. (È un fatto che a vent’anni volevo fare l’attore e ho cambiato strada perché ho perso la voce. E oggi quando mi ritorna la voglia non capisco bene se è una reale esigenza o semplicemente un fatto di vanità. Oggi forse questo tardivo desiderio rischierebbe di diventare una fuga dalla vita più che un atto di coraggio. Non so.)
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K E Y W O R D S
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[] M. B e l l o c c h i o, ‹S a l t o n e l v u o t o›, U n i v. e c o n. F e l t r i n e l l i, 1 9 8 0.
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