E poi le repliche hanno qualche analogia con i ciak (ma in cinema il pubblico “pagante” è soltanto il regista). Nonostante il grande spezzettamento del lavoro, le pause per preparare l’inquadratura, c’è durante le riprese, inquadratura per inquadratura, si stabilisce tra gli attori e il regista una complicità, un’intesa che è unica, che ha una sua specifica sessualità. Ci si innamora dei propri attori e poi a fine film ci si separa. È molto naturale. Il regista, anche se sta dietro la macchina da presa, può non essere un guardone. Perché tutto il film è, o può essere, un ininterrotto atto d’amore. L’attore che si prepara a una scena è un uomo estremamente fragile, eppure c’è sempre qualcuno della troupe, che magari fa il cinema da trent’anni, che lo disturba, lo importuna, gli chiede se vuole un caffè, gli offre la sedia, vuol essere gentile e poi si offende se l’attore gli risponde male, gli dà del fanatico perché l’attore “pretende di concentrarsi”. I “capricci” degli attori sono spesso delle reali esigenze (come anche spesso sono degli abusi di potere). Ma chi fa il cinema di mestiere non può capirlo, disprezza l’attore perché “non fa altro che mostrare la faccia”. E allora l’attore si vendica e incomincia anche sul set la farsa tragica sadomasochista… Naturalmente parlo di veri attori, non di impiegati.
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K E Y W O R D S
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[] M. B e l l o c c h i o, ‹S a l t o n e l v u o t o›, U n i v. e c o n. F e l t r i n e l l i, 1 9 8 0.
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