[⇐] Solo alla fine il reale, un segno di possibile salvezza nel ritorno al reale, rompe il silenzio e la penombra in cui è immerso, e nell’ultima solare sequenza che vede consumarsi opposte e definitive scelte, una luce piena inonda la casa, non più spazio protetto, di fuga dalla propria verità, dalla ‹violenza› e dai dilemmi dell’esistenza. Che è quello che Marta, invece, trova nell’altra scena, il teatro. Personale rimpianto di B., è una presenza che a intermittenze torna nei suoi film, e è qui il luogo, seppure degradato, della creatività, dell’antico “riprendersi la vita”. Nell’attore, in Sciabola, il confine tra vita e rappresentazione si è fatto indistinto, in un’ansia di autenticità, di dopo l’avanguardia, di dopo il ’68. La scena teatrale è il luogo di un “atto totale come svelamento della più reale delle necessità: quella di realizzare un rapporto vivo, diretto, vero, fra esseri umani”. E tale è anche come forma legata al potere, di dominio attraverso la paura come ‹Nel nome del padre›, azione più che rappresentazione che tende a uscire dalla scena, che, al pari della follia, si apre su dilemmi essenziali, su zone inquietanti, paradossalmente luogo dell’agire e della ‹vita› in contrapposto al vano ‹fantasticare› che è della vita di ogni giorno.
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K E Y W O R D S
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[] M. B e l l o c c h i o, ‹S a l t o n e l v u o t o›, U n i v. e c o n. F e l t r i n e l l i, 1 9 8 0.
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