Il giudice si è costruito in questo appartamento labirinto e sepolcro un suo ‹ordine› retto da norme morali astratte e pietrificate, che gli funge da “protezione magica per ogni progetto di vita personale”. L’essere in modo autonomo non si pone più, è un vago “ricordo” o una minima infrazione (con l’amante) che non può, non ‹deve› arrivare a intaccare il proprio ossessivo “sistema”, il rituale del lessico famigliare, le cene preparate e consumate solo da e con la sorella, le memorie infantili di bambole e fumetti da condividere come le medicine, le cerimonie in cui si battezzano sempre nuove Marte. È teso a scomparire nella propria personale identità di fronte ai ‹modelli›. Che significano non-rischio. Restringe sino quasi a annullare il “soggetto della vita”. Condizione di equilibrio è, però, che ogni personaggio resti chiuso dentro l’istituzione, il proprio ruolo, ma l’appartamento non può non avere delle fessure che rendono inutile il suo ossessivo, meticoloso chiudere la porta. Come la luce che fende la penombra costante degli ambienti. Come il bambino, cui agli inizi è impedito l’accesso. Soprattutto, come Sciabola, mezzo usato per i suoi sogni di potenza e di morte che in fine è la propria morte — e che ha la stessa funzione del soldato Passeri nei confronti del capitano Asciutto. [⇒]
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K E Y W O R D S
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[] M. B e l l o c c h i o, ‹S a l t o n e l v u o t o›, U n i v. e c o n. F e l t r i n e l l i, 1 9 8 0.
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