Non distinguendo la creatività della fantasia dalla distruttività della malattia mentale, caddero in questa trappola autodistruttiva non solo i futuristi guerrafondai ma anche i surrealisti, che volevano mettere insieme Marx e Freud (non accorgendosi della feroce contraddizione) approdando a un automatismo dissociato e a una ‘iconoclastia’ sempre più fine a se stessa. Se nel 1917 Duchamp riduceva l’arte a ‘cosa’ con il suo ‹Orinatoio›, sul versante opposto e complementare, Malevič, nel 1915, era andato alla ricerca dell’«origine dell’essere» con il ‹Quadrato nero›. «Così il percorso dell’arte invece che al pensiero giungeva alla soglia di un territorio sacrale», nota lo psichiatra Domenico Fargnoli. Su questa linea poi si sarebbero mosse «la Transvanguardia, l’arte concettuale, la Minimal art, l’Op art, il New dada. Negli innumerevoli canali in cui, dagli anni Settanta e Ottanta, si è diretta l’attività degli artisti sembra caratterizzarsi per assenza di vitalità, piattezza e astrazione formale» [3].
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NOTE
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[3]. D. Fargnoli, ‹La danza del drago giallo›, Titivillus, Pisa 2003, pp. 72-73.
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[] S. M a g g i o r e l l i, ‹A t t a c c o a l l’ a r t e›, L’ A s i n o d’ o r o, 2 0 1 7.
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